lunedì 4 ottobre 2010
15
Quando aspetto il pullman alla fermata di via Rossini ho sempre il tempo per una sigaretta. Non sono un grande fumatore, devo essere sincero, anzi direi proprio che non vado matto per il rito del tabacco subito dopo aver mangiato o in pausa caffè. Ci sono però quei momenti in cui non sai cosa fare delle tue mani: puoi tenerle in tasca, oppure con una sorreggere la borsa che contiene i documenti di lavoro e il portatile e con l’altra accarezzarti il volto o mangiucchiare le unghie distrattamente. Ecco in momenti come questi una sigaretta fa davvero al caso mio. L’accendo con un movimento rapido della mano, e assaporo ogni singolo tiro come se fosse l’ultimo di un condannato a morte. Ho 38 anni ormai, lavoro poco lontano dall’università in un ufficio che si occupa di polizze assicurative per grandi aziende. Non è sicuramente quello che sognavo di fare da bambino, quando disegnavo su grandi quaderni colorati i dinosauri e le astronavi, ma tant’è.
Mi guardo attorno fingendo disinteresse per le facce che mi circondano, principalmente appartenenti a giovani studenti di filosofia, psicologia o scienze umane in genere; in realtà il mio scopo è tutt’altro. Abito poco lontano da qui, credo che in venti minuti a piedi potrei tranquillamente farcela ad arrivare a casa, e dopo una giornata al chiuso, tra quattro mura prefabbricate, forse quattro passi mi farebbero bene. Anzi, un tempo non avrei mai preso il mezzo pubblico per tornare a casa. Amavo camminare guardando le vetrine, osservando le espressioni variopinte della gente che s’imbatteva sul mio cammino. Circa quattro mesi fa, però, in seguito a un infortunio giocando a calcetto con gli amici, avevo seri problemi a un piede, che mi impedivano di camminare senza che una fitta mi facesse vedere le stelle ad ogni passo. Per quel motivo il mio medico mi aveva consigliato di utilizzare i mezzi. Una gran scocciatura per me, fidatevi. Odio la calca di gente, la puzza di umanità schiacciata come sardine dentro una scatoletta arancione.
Perché allora, mi chiederete voi, continuo a prendere il tram numero quindici, invece di tornare alle mie vecchie abitudini?
Beh, è proprio quello il motivo per cui mi guardo attorno, fingendo disinteresse, mentre fumo avidamente la mia unica sigaretta della giornata. Ogni giorno, a questa fermata, aspetta il mio stesso tram una ragazza. Banale vero? L’avevo notata subito, il primo giorno, mentre zoppicando avevo cercato di prendere posto nella parte posteriore del mezzo pubblico. Lei si era fermata per farmi salire, mi aveva sorriso mostrando dei meravigliosi denti bianchi e due occhi blu come il cielo. Non serve dire che era di una bellezza devastante, di quelle bellezze acerbe ma consapevoli. Avrà avuto non più di ventidue, forse ventitré anni, capelli castani leggermente mossi nascosti da una spessa berretta di lana. Durante le poche fermate che mi separavano da casa l’avevo squadrata in modo quasi ossessivo, non preoccupandomi se l’avrebbe notato o meno. Sono un uomo d’affari in fondo, difficilmente avrebbe pensato che appartengo alla categoria dei maniaci sessuali. Ascoltava la musica da un lettore nascosto nella tasca destra del cappotto, dalla quale fuoriuscivano soltanto le cuffie bianche. Muoveva la testa a destra e sinistra, di tanto in tanto, al ritmo di una musica a me sconosciuta; chissà se le piaceva il vecchio rock, oppure se ascoltava quelle cose commerciali di cui si riempiono le orecchie i ragazzini al giorno d’oggi.
Comunque, da allora, ogni giorno lavorativo l’ho incontrata a questa fermata. Tra noi c’è stato fin da subito un gioco di sguardi, una complicità nascosta e intima. Non è stupida, si è sicuramente resa conto che non riesco a staccarle gli occhi di dosso, e sicuramente la cosa non la disturba, anzi. Qualcosa mi solletica dentro da allora, e non riesco a capire di cosa si tratti. Non mi è mai capitato prima, e la cosa mi eccita e spaventa allo stesso tempo.
Purtroppo non conosco nulla di lei: non so il suo nome, cosa faccia nella vita, nemmeno dove abiti (la mia fermata è prima della sua). So solo che una volta sceso, mi volto sempre per un’ultima volta a cercare il suo sguardo, mentre le porte si richiudono e il mezzo arancione riprende il suo cammino. Lei mi guarda, con quegli enormi occhi blu, che scavano un pozzo sempre più profondo nel mio desiderio più segreto.
Sei ore di lezione, ma adesso finalmente si torna a casa. Non sono molto stanca, ai tempi del liceo era molto più pesante seguire i vari professori mentre raccontavano sempre le stesse identiche cose, giorno dopo giorno. Cammino piano sotto i portici di via Po, ha sempre un suo fascino questa zona di Torino pregna di sapori d’altri tempi: le bancarelle piene di libri, gli incensi e gli indiani con le rose che cominciano il loro lavoro quotidiano. Qualcuno una volta mi ha detto che questi tizi mandano i soldi a casa, in india, sri lanka o bangladesh, e con il ricavato della vendita di piccoli e stanchi fiori riescono a comprarsi interi appezzamenti di terra. Una sera mi ero fermata a parlare con uno di questi ragazzi, poco più che ventenne, come me. Mi aveva raccontato dei suoi sette fratelli e della madre malata, ma di terra e case non mi aveva accennato. Chissà. Nelle orecchie mi suona “Sweet Jane” dei Velvet Underground: “Standing on the corner, suitcase in my hand, Jack is in his corset, and Jane is her vest. And me, I'm in a rock'n'roll band, Hah!” Canto a squarciagola la prima strofa nella mia testa, mentre mi avvio con passo tranquillo verso la fermata del quindici.
Eccolo, lo vedo subito in mezzo a tutta l’altra gente. Lui è lì, appoggiato alla ringhiera metallica arrugginita, in uno dei suoi completi più belli. Fuma una sigaretta tenendola tra l’indice il pollice e il medio, come se fosse una star del cinema o qualcosa del genere. Fingendo di non vederlo, mi appoggio alla palina dell’autobus, mentre sento il mio cuore accelerare leggermente e la mia temperatura corporea crescere di quel poco che non mi so spiegare. Ormai è quasi primavera, la gente comincia a svestire i giacconi pesanti e i cappotti, per sfoggiare sottili e colorate felpe o giacchette leggere.
Ricordo la prima volta che l’avevo visto: zoppicava come un vecchio pastore greco, era buffo tutto elegante, con i capelli spettinati e quella camminata strana. Avevo notato subito i suoi occhi profondi e la sua carnagione scura, il viso velato da una curata barba di qualche giorno. L’avevo trovato subito bello, diverso da tutti i ragazzi che sono solita frequentare. In fondo avrà almeno 40, forse 45 anni, anche se ne dimostra qualcuno di meno. Ho fantasticato su di lui, lo devo ammettere. Da qualche tempo lo incontro sul tram che mi porta a casa da lezione, e devo ammettere che forse sto scherzando con il fuoco: durante tutto il percorso lui mi lancia certe occhiate! E pur facendo finta di nulla la maggior parte del tempo, ogni tanto lo guardo per qualche secondo dritto negli occhi, cercando di mantenere un’espressione sensuale e provocante che non mi appartiene. L’ho raccontato ad Alice, la mia migliore amica, in una delle nostre serate all’aperitivo del giovedì sera, prima di andare a ballare come pazze in quel buco giù ai Murazzi. Lei dice scherzando che non sono altro che una sgualdrina, che cerco l’amante vecchio per staccarmi dalla culla, ma in realtà so perfettamente che lei al posto mio avrebbe già trovato un modo per parlare con lui, se non di peggio.
So che probabilmente non gli rivolgerò mai la parola, anche perché in fondo la situazione mi spaventa. Un bel gioco dura poco, mi direbbe mio padre, e forse lo sto facendo ballare un po’ troppo a lungo.
L’iPod passa a “Perfect day”, sempre della raccolta dei Velvet Underground. In lontananza si sta avvicinando il quindici, fortunatamente è mezzo vuoto. Appena si ferma salgo dalle porte a metà, sapendo che lui si andrà a sedere, come al solito al fondo. Con la coda dell’occhio guardo dove si sistema, e scelgo un posto dal quale potrò vederlo senza farmi notare troppo.
Mi fissa per qualche secondo, poi finge indifferenza. Di fianco a me un vecchio signore tiene in braccio la nipotina, le sta raccontando com’è cambiata la città rispetto a quando era giovane lui. Non riesco a capire se quello che dice sia vero o inventato, niente di più che una favola per bambini: in fondo per me Torino è sempre la stessa. Una città viva e pulsante, che ti sbatte in faccia una nuova avventura ogni volta che metti il naso fuori di casa, fatta di sudore e risate, di alcool e di musica pompata a gran volume, come adrenalina nel sangue.
Ma non è di questo che l’anziano sta raccontando alla nipotina, e non posso biasimarlo.
Oggi è più raggiante del solito. Indossa una gonna corta nera, calze colorate probabilmente autoreggenti e le solite scarpe viola e consumate che probabilmente porta da anni con la bella stagione. Sorride di tanto in tanto a un bambino che sta seduto in braccio a quello che sembra essere suo nonno, il bambino intimidito nasconde la testa tra le spalle dell’anziano.
Avrei voluto avere figli, qualche anno fa, quando stavo ancora con la donna con la quale credevo avrei trascorso il resto della mia vita. Rachele. Ma sapete come vanno certe cose: oggi il mondo non è più quello di un tempo. Siamo travolti da informazioni, opportunità, possibilità infinite, a miliardi al secondo; tutto va ai trecento all’ora, non c’è più il tempo per respirare e rendersi conto dell’importanza delle cose che si possiede. Il giorno prima eravamo pazzamente innamorati, facevamo progetti per il futuro insieme, guardavamo gli annunci delle case in centro sognando un attico in piazza Vittorio, mentre poco dopo lei con le lacrime agli occhi mi confessava di aver deciso di tornare a stare dai suoi, perché aveva bisogno di riflettere. Dubbi, incertezze, che di solito hanno un nome. Ho preferito non indagare, per salvare almeno un briciolo di dignità, e perché in fondo certe cose preferisco lasciarmele scivolare addosso: meglio avere le spalle strette, cantava qualcuno in una canzone.
La ragazza si è accorta di me, mi sorride come ha fatto ieri e il giorno prima ancora.
Non riesco a capire cosa questa ragazza abbia risvegliato in me: era davvero parecchio che non mi sentivo così. Di solito sono molto sicuro con le donne: quando ne noto una in un locale con la quale mi piacerebbe approfondire il rapporto, mi avvicino a lei, trovo un argomento di conversazione più o meno scontato, le faccio qualche complimento e capisco immediatamente se il gioco valga la candela o se sia meglio cambiare aria. Questa ragazzina poco più che adolescente invece mi è entrata sotto la pelle, mi scava dentro un qualcosa che non riesco a riconoscere. Non capisco se è la sua giovane età (non dico che potrebbe essere mia figlia, ma quasi; anzi, alcuni dei miei amici più cari, quelli che si sono sposati per primi, hanno figli più o meno di quell’età), oppure se è la situazione stessa a creare in me questo desiderio. L’idea di un essere puro, con gli occhi così belli e puliti, ancora incontaminato dallo schifo che riempie questo mondo. Così diversa dalle donne che sono solito frequentare. Così diversa da Rachele.
Nella mia mente e nel mio fegato si mischiano il volto dell’angelo sconosciuto e quello della donna che mi ha spezzato il cuore, si attorcigliano alle mie budella come una pianta rampicante velenosa. Sento improvvisamente mancare l’aria, mi strofino il viso con forza per scacciare questi pensieri, allento la cravatta, mentre il battito cardiaco accelera.
Ho deciso, questa sera è la sera. Sarà folle forse, non so nemmeno bene cosa cerco, cosa voglio, cosa farò e dirò una volta che saremo faccia a faccia, ma dentro di me una forza misteriosa e nuova mi dice che non posso farne a meno.
Il tram arriva alla mia solita fermata: la ragazza mi guarda, sapendo qual è il nostro rituale. Ma io rimango immobile. La guardo con tutta l’intensità di cui sono capace, noto ogni singolo muscolo del suo volto cambiare espressione, mentre il tram riprende la sua corsa e io sono ancora seduto al mio posto. Non riesco a capire se sia paura, eccitazione o stupore, quello che prova la mia giovane amica. Ormai è troppo tardi per tornare indietro: cerco di rimanere calmo, ma è più difficile che prima di una fondamentale riunione di lavoro.
Non è di emozioni come queste che si nutre il nostro spirito?
Non capisco, non è sceso alla solita fermata. Ero già pronta a lanciargli uno di quegli sguardi che mi sono allenata più volte a fare di fronte allo specchio: Alice dice che il segreto per tenere per le palle un uomo non è nel culo, nel seno pieno e abbondante, ma soltanto in uno stupefacente e mozzafiato sguardo sparato dritto nell’animo al momento giusto. Forse ha ragione, anche se mi imbarazza sempre guardare un ragazzo dritto negli occhi. Arrossisco sempre leggermente, mi scappa da ridere e in pochi secondi è lui ad avere me in pugno, non il contrario.
Ma perché non è sceso? Avrà un altro appuntamento altrove? I suoi occhi si posano ripetutamente su di me, li posso sentire come se fossero grosse mani calde e invisibili. I suoi occhi sembrano quelle di un personaggio uscito da un racconto di Emily Bronte, un moderno Heathcliff pazzo di desiderio e spirito distruttivo.
Tra poco ci sarà la mia fermata: il tram comincia a svuotarsi e lui rimane fermo al suo posto, con i gomiti appoggiati alle ginocchia e la schiena curva. Cosa devo fare? Mando un messaggio ad Alice: “Ali, l’uomo del tram non è sceso alla solita fermata, e se mi seguisse?? Help!”, premo invio e tengo il telefono tra le due mani sperando che l’amica mi venga in soccorso al più presto.
Cerco in tutti i modi di evitare di incrociare i suoi occhi, che ora si sono fatti davvero insistenti: c’è un misto di disperazione e desiderio in quei profondi occhi scuri, come quelli di un animale ferito braccato dai cacciatori.
Il tram, lentamente, si avvicina alla mia fermata: mi alzo, mi avvicino alle porte, spengo con una mano il lettore musicale mentre con l’altra stringo forte il telefonino. Do le spalle all’uomo, ripetendomi nella mia testa che non devo assolutamente guardarlo, altrimenti il mio cuore potrebbe esplodere.
Il mezzo si ferma, le porte si spalancano. Esco quasi correndo, per poco non m inciampo, mi cade il telefonino che rimbalza vicino a un bidone della spazzatura. Maldestra imbranata che non sono altro. Vado per raccoglierlo, ma lui è più veloce di me. Lo raccoglie, e me lo porge, con espressione seria.
Ci siamo solo noi due alla fermata, mentre il sole tramonta dietro le Alpi, e il tram numero quindici ricomincia la sua corsa verso il capolinea.
Un’ultima sigaretta sul balcone, perché mio marito non vuole che fumi in casa, e poi preparerò cena per lui e nostro figlio. Mi piace Torino in questa stagione, soprattutto a quest’ora, poco prima del tramonto: il sole colora tutto di arancione, le strade sembrano più pulite, si potrebbe immaginare di essere nel bel mezzo di una pubblicità della Mulino Bianco.
In questi dieci minuti di libertà mi concedo un piccolo spazio per spiare la gente dall’alto: non è davvero male guardare il mondo da un palchetto privilegiato, entrare a far parte della quotidianità altrui senza che essi se ne accorgano. Potrebbe sembrare un po’ come essere invisibili, per camminare in mezzo alla gente e sentire i loro discorsi, senza essere notati. Ho sempre avuto questa passione, in fondo: da piccola abitavo al quinto piano di un palazzo in centro: passavo delle ore intere seduta sotto il citofono, con la cornetta in mano, ad ascoltare i discorsi delle persone che passavano sotto il nostro portone. Riuscivo a raccogliere piccoli frammenti indefiniti, misti a risate, clacson e sirene della polizia, che poi nella mia immaginazione di bambina diventavano veri e propri racconti, storie epiche e avventure fantastiche, ricche di spie, intrighi e amori impossibili. Ripensare a queste cose mi fa sorridere, mentre spengo il mozzicone sulla ringhiera e lo butto nei rifiuti. Sto per rientrare in casa, quando alla fermata dei pullman vedo una ragazza scendere di corsa dal quindici, inciampare e perdere qualcosa. Un uomo, sceso anche lui dallo stesso mezzo, raccoglie quel qualcosa e lo porge alla ragazza. I due rimangono per più di un minuto a guardarsi, così vicini che sembrano nell’ombra della sera essere quasi una cosa sola.
Lui le tiene la mano, si sporge verso di lei e le sussurra qualcosa nell’orecchio, che da qua ovviamente non riesco a sentire, mentre lei sembra una statua di cera, quasi paralizzata.
La bacia, la bacia per un interminabile minuto, forse di più. Lei finalmente si scioglie, appoggia timidamente un braccio sulla spalla di lui che la cinge con forza sui fianchi.
Dopo pochi istanti lui lascia la presa, le accarezza il volto e si allontana di un paio di passi. Lei gli dice qualcosa, lui sembra sorridere e si incammina nella direzione dalla quale il tram era venuto.
La ragazza rimane ferma nella stessa posizione, a guardarlo, mentre lui sparisce dalla mia visuale.
Da dentro casa mio marito mi chiama, ritorno alla realtà, mentre anche la ragazza comincia a muoversi nella direzione opposta.
Chiudo la finestra, lui mi chiede cosa stessi guardando. “Niente, niente, non ti preoccupare, solo le macchine passare”, gli rispondo, mentre nel mio cuore comincio a scrivere il finale di questa storia appena sbirciata.
Guardo l’orologio appoggiato al muro dell’ufficio. Lei sarà alla fermata, ormai. Ripenso a quel momento, in cui tutto è cambiato: il bacio, le sue labbra calde sotto le mie, i suoi occhi chiusi e il suo respiro lento e quasi impercettibile. Avrei voluto imbottigliare il mare di emozioni che mi è esploso dentro in quel momento, per poterne dare una sorsata di tanto in tanto, nei momenti bui. Non ho più preso il tram, da quel giorno. Perché? Non è facile da spiegare. Avrei voluto stringerla, baciarla, accarezzare il suo corpo e fare l’amore con lei, fino a diventare una cosa sola. Avevo il corpo che esplodeva di desiderio e l’animo inebriato da ogni sua sfumatura, dal sapore delle sue labbra e dal profumo della sua pelle.
Poi però nella mia mente è comparsa un’immagine, all’improvviso. I suoi occhi che mi guardavano come mi aveva guardato Rachele, il giorno che se ne era andata via per sempre. Perché è così che alla fine vanno le cose. Lei, invece, doveva essere diversa. Doveva essere perfetta, per sempre. Molti di voi non capiranno, lo so, ma non importa.
Spengo il computer, lo infilo nella borsa, scendo le scale fino in strada e m’incammino verso casa. I negozi stanno chiudendo, tutti si affrettano a tornare a casa dai propri cari. Penso a lei, e sono sicuro che anche lei sta facendo lo stesso, ora, seduta da sola vicino a un finestrino, sul quindici.
Sono passate due settimane, da quella sera, e non l’ho più rivisto sul tram. Seduta al mio posto, con la testa appoggiata al finestrino, ascolto il nuovo disco di Norah Jones ad occhi chiusi, ignorando tutto e tutti. Ormai ho rinunciato a cercarlo tra la gente. Il tram è abbastanza affollato, ma per me non c’è nessuno: soltanto io e lui, fermi alla fermata del tram, a poche centinaia di metri da casa mia.
Ho 38 anni, ma me ne sento 70; da quando ti ho vista però, me ne sento poco più che 20. Un’unica frase, sincera e diretta, poi un bacio, il migliore di sempre. Un sorriso, ed era uscito dalla mia vita, in punta di piedi.
Non ho raccontato a nessuno, neppure ad Alice, quello che è successo. Lei mi aveva poi risposto al messaggio, chiedendomi com’era andata, ma avevo finto di essere la solita che non capisce niente e avevo mentito, dicendole che lui era sceso semplicemente alla fermata successiva, chiudendo il tutto con un’infantile smile sorridente.
Apro gli occhi, guardo Torino scorrere dietro il finestrino. Una città pulsante, che ti sbatte in faccia una nuova avventura ogni volta che metti il naso fuori di casa. È proprio vero.
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